Basta un telo bianco, grande quanto il palcoscenico del Piccolo Teatro Strehler, una sedia e un grande schermo per intavolare una conversazione aperta sul tramonto di un’esistenza. E la conseguente alba. Quel crepuscolo, dove i demoni sbiadiscono e la luce rinvigorisce, viene portato con forza sotto i riflettori dalla presenza corporea di Pippo Delbono, che lascia le luci accese in platea per guardare negli occhi il pubblico milanese.
«Domani è un altro giorno, si vedrà» canta insieme a una giovanissima Ornella Vanoni, proiettata nel maxi schermo retrostante. Così frammenti di memoria collettiva, constatazioni scanzonate sul presente e riflessioni personali si sovrappongono. I piani del privato e del pubblico diventano l’orizzonte fluido entro cui si snoda il bellissimo tributo a Bobò e Pina Bausch e, con loro, a tutti quelli che dopo essersi addormentati hanno avuto il coraggio di risvegliarsi o che stanno aspettando di farlo.
Il risveglio, produzione dell’Emilia Romagna Teatro ERT e numerosi partner europei, prende spunto dalle vicende personali di Delbono con Bobò, presudonimo di Vincenzo Cannavacciuolo, artista sordomuto internato nell’ospedale di Aversa per più di trent’anni e che il regista ligure ha deciso di accogliere non solo nella sua compagnia, ma nella sua vita, ospitandolo e vivendo con lui fino alla sua morte nel 2019. E da Pina Bausch, artista acclamata in tutto il mondo per aver creato il tanztheater, il teatro-danza, alla quale Delbono deve molto artisticamente e le cui movenze ancora si possono riconoscere nei gesti cadenzati, nelle onde melliflue delle mani del regista mentre si muove sulla musica.
E quando urla, si contorce, solo nella scena, interrogato da un membro della sua compagnia sulle sue paure, Delbono raggiunge la sua cifra stilistica più peculiare: presentare sulla scena le emozioni attraverso le emozioni. Così la paura per la vita, per l’amore, per il rimanere solo, si riduce a un singolo urlo rivolto alla platea inerme: “Voglio la gente!”, accolto dagli attori che, uno ad uno, lo abbracciano.
Protagonisti di un’esistenza universale, dove ciascuno è «pellegrino nel mondo, finchè arriverà il risveglio», gli attori costruiscono così cumuli di terra sul palcoscenico nell’orizzonte aranciato dello sfondo. Un paesaggio di guerra, quella guerra interiore e esteriore che si esperisce ogni giorno e che ogni giorno ci costringe a fare i conti non solo con noi stessi, ma con le tragedie fuori dal nostro paese. «Sono stato a lungo nella penombra. Ma ti prego, luce che sei dentro di me, fammi risalire» dice fuoricampo. E l’invito finale è quindi di «Danzare, danzare nella guerra», cogliere la vita e coltivarla interiormente con il concime delle proprie perdite e del proprio dolore, finché non germoglierà in una nuova primavera.