Pippo Delbono rende personaggio l'artista sordomuto che salvò dall'internamento e ospitò a casa sua di Giorgia Valeri - Famiglia Cristiana - |
Domenica 24 Novembre 2024 04:47 |
Pippo Delbono rende personaggio l'artista sordomuto che salvò dall'internamento e ospitò a casa sua
22/11/2024 In scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano "Il riveglio", una storia di salvezza e voglia di vivere, raccontata con il teatro-danza di Pina Bausch
Basta un telo bianco, grande quanto il palcoscenico del Piccolo Teatro Strehler, una sedia e un grande schermo per intavolare una conversazione aperta sul tramonto di un’esistenza. E la conseguente alba. Quel crepuscolo, dove i demoni sbiadiscono e la luce rinvigorisce, viene portato con forza sotto i riflettori dalla presenza corporea di Pippo Delbono, che lascia le luci accese in platea per guardare negli occhi il pubblico milanese. «Domani è un altro giorno, si vedrà» canta insieme a una giovanissima Ornella Vanoni, proiettata nel maxi schermo retrostante. Così frammenti di memoria collettiva, constatazioni scanzonate sul presente e riflessioni personali si sovrappongono. I piani del privato e del pubblico diventano l’orizzonte fluido entro cui si snoda il bellissimo tributo a Bobò e Pina Bausch e, con loro, a tutti quelli che dopo essersi addormentati hanno avuto il coraggio di risvegliarsi o che stanno aspettando di farlo. Il risveglio, produzione dell’Emilia Romagna Teatro ERT e numerosi partner europei, prende spunto dalle vicende personali di Delbono con Bobò, presudonimo di Vincenzo Cannavacciuolo, artista sordomuto internato nell’ospedale di Aversa per più di trent’anni e che il regista ligure ha deciso di accogliere non solo nella sua compagnia, ma nella sua vita, ospitandolo e vivendo con lui fino alla sua morte nel 2019. E da Pina Bausch, artista acclamata in tutto il mondo per aver creato il tanztheater, il teatro-danza, alla quale Delbono deve molto artisticamente e le cui movenze ancora si possono riconoscere nei gesti cadenzati, nelle onde melliflue delle mani del regista mentre si muove sulla musica. E quando urla, si contorce, solo nella scena, interrogato da un membro della sua compagnia sulle sue paure, Delbono raggiunge la sua cifra stilistica più peculiare: presentare sulla scena le emozioni attraverso le emozioni. Così la paura per la vita, per l’amore, per il rimanere solo, si riduce a un singolo urlo rivolto alla platea inerme: “Voglio la gente!”, accolto dagli attori che, uno ad uno, lo abbracciano. Protagonisti di un’esistenza universale, dove ciascuno è «pellegrino nel mondo, finchè arriverà il risveglio», gli attori costruiscono così cumuli di terra sul palcoscenico nell’orizzonte aranciato dello sfondo. Un paesaggio di guerra, quella guerra interiore e esteriore che si esperisce ogni giorno e che ogni giorno ci costringe a fare i conti non solo con noi stessi, ma con le tragedie fuori dal nostro paese. «Sono stato a lungo nella penombra. Ma ti prego, luce che sei dentro di me, fammi risalire» dice fuoricampo. E l’invito finale è quindi di «Danzare, danzare nella guerra», cogliere la vita e coltivarla interiormente con il concime delle proprie perdite e del proprio dolore, finché non germoglierà in una nuova primavera. |
Delbono la resistenza e il risveglio di Anna Bandettini - Repubblica - |
Giovedì 21 Novembre 2024 10:29 |
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Pippo Delbono, il risveglio di Gianna Valenti - Paneacquaculture- |
Martedì 19 Novembre 2024 13:18 |
Paneacquaculture.net
Pippo Delbono il risveglio
di Gianna Valenti
GIANNA VALENTI | Luci aperte, una sedia portata in proscenio, un corpo, il suo corpo, che procede incerto per affermare le azioni che codificano l’intero lavoro: chiacchierare, dialogare, raccontare, lasciarsi guardare, guardare e poi danzare, con una danza fatta di gesti come segni distillati di una presenza, segni performativi che declinano pensieri consapevoli e inconsapevoli e che hanno il potere di solidificarsi come tracce di memoria oltre il tempo della scena. Pippo Delbono si offre agli sguardi degli spettatori e cerca i loro sguardi, schermando con la mano la luce proiettata dall’alto. Il suo corpo al centro della scena sceglie di abitare pienamente la relazione con l’altro, condividendo la fisicità e la verità del suo presente. Dopo the dark night of the soul, direbbero gli anglosassoni, con Il risveglio il regista abbraccia la sua intera esistenza, facendo viaggiare lo sguardo, il suo e il nostro, tra la giovinezza e il tempo presente, attraverso le correnti che lo trasportano, e ci trasportano, tra la luce e il buio, tra la leggerezza di un incontro giovanile e la profondità dolorosa di un testo rock dei Jefferson Airplane, tra parole di sensualità e carnalità cantate dagli Who e il discorrere ironico sulla vecchiaia. Raccontare per farsi attraversare ancora una volta e per concedersi la possibilità di un domani diverso, cantare come atto di fiducia nella vita che il regista affida alla presenza iconica, proiettata a fondo scena, di una giovanissima Ornella Vanoni, e danzare affidandosi a un finale che non si fa chiusura ma festa, momento di gioia e di apertura, perché chiudere e andarsene è un po’ come morire, ci racconta.
Compagnia Pippo Delbono, Il Risveglio, Ph Luca Del Pia
Le luci rimangono aperte, Delbono, sulla sedia e a scena vuota, chiacchiera, racconta e cerca un dialogo con i corpi e gli sguardi che gli stanno di fronte e che riesce a intercettare. I suoi racconti parlano di un percorso artistico che è da sempre percorso umano, di un guardare e riguardare la vita per farne teatro, di una costante ricerca di senso incrociando volti, parole, storie, ricordi e sguardi. Siamo lontani dal testo onnipresente che ci arrivava dal buio della regia come voce fuoricampo in Amore, dove la sua presenza fisica — a parte la camminata di spalle e lo sdraiarsi finale — era completamente negata. Qui il suo corpo e la sua voce incarnano l’urgenza per la presenza dell’altro e un desiderio rinato di condividere la scena con gli attori/danzatori della sua compagnia; corpi ed esistenze che abbiamo imparato a riconoscere negli anni ma che il regista sente la necessità di ripresentarci uno alla volta, chiamandoli per nome. Nelle loro singolarità insostituibili, ecco allora Dolly Albertin, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella che il pubblico applaude con affetto. Corpi chiamati a sostenere le sue azioni e le sue narrazioni, corpi che danzeranno insieme a lui, o per lui, corpi pronti ad aiutarlo, perché dialogare con il proprio presente non è certo semplice e immaginare un futuro diventa possibile solo quando ad accompagnarti è qualcuno che ti conosce e che ha condiviso la tua storia, qualcuno che ti sa abbracciare e amare.
Compagnia Pippo Delbono, Il Risveglio, Ph Luca Del Pia
E tra i corpi e i ricordi presenti sulla scena per il suo teatro della vita non poteva non esserci Bobò, l’attore mancato nel 2019 con cui Delbono ha condiviso la scena e l’esistenza per 23 anni, il protagonista di tutti i suoi spettacoli a partire da Barboni nel 1997 sino a La Gioia nel 2018. Bobò “padre, fratello, maestro” che “aveva trovato un modo di sedurre Pina” — Pina Bausch, che ci ha lasciati nel 2009, maestra riconosciuta e amata dal regista. A loro, a queste presenze ancora così vive nella sua esistenza e nel suo lavoro, Delbono dedica lo spettacolo, facendo del racconto sulla loro relazione la linea narrativa centrale e delle loro presenze la chiave di comprensione della sua visione teatrale e coreografica. Bausch adorava Bobò e non potrebbe certo essere altrimenti guardando le immagini finali di questo Risveglio. Le proiezioni interminabili, a fondo scena, di Bobò in bianco e nero, con piani di ripresa ravvicinati mentre danza su musica di Bob Marley, restituiscono con pienezza la lezione di Bausch sul gesto come segno compresso di un’esperienza. Il gesto come presenza performativa di ciò che il corpo ha attraversato e la danza come partitura e concatenazione di segni che per Delbono sono chiamati a mantenere in scena la qualità dell’estemporaneità con cui si sono manifestati una prima volta. Bobò che qui, nel 2024 sulla scena del Teatro Astra, incarna una presenza performativa più forte di ogni altro corpo in presenza fisica. Delbono che si aggancia alla gestualità di Bobò, rispecchiandola e riducendola, ma mantenendone l’intensità della presenza e che danza modulando una gestualità che colpisce per leggerezza, velocità e intensità del segno espressivo. E sempre lui che condivide domande e paure ancora senza una risposta, appoggiando movimenti e voce sulle musiche suonate in scena al violoncello da Giovanni Ricciardi. E poi i suoi attori/danzatori capaci di abitare la presenza semplice di una corsa, di un girotondo, di uno stare, di un abbraccio, di uno sguardo, di un gesto o di un accenno di gesto — identità singole capaci di farsi coro nella diversità, capaci di presentarsi e di stare davanti al pubblico come fosse sempre la prima e ultima volta. Un mondo, quello de Il Risveglio, in cui ancora abita la paura e la sofferenza, ma chi di noi non le attraversa, anche se a tratti, nella propria esistenza? Un mondo in cui però abita anche la possibilità di guardarle per comprenderle e trasformarle. “Luce che sei in me, fammi risalire come le aquile” sono le parole che Delbono rilascia nello spazio e che poi danza per superare quella paura “della vita, dell’amore, di restare senza amore” che ci ha fatto attraversare, per poi riconoscersi infine luce, amarsi e lasciarsi amare.
IL RISVEGLIO
uno spettacolo di Pippo Delbono con la Compagnia Pippo Delbono: Dolly Albertin, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella e con Giovanni Ricciardi (violoncello e arrangiamenti) luci Orlando Bolognesi costumi Elena Giampaoli suono Pietro Tirella capo macchinista Enrico Zucchelli organizzazione Davide Martini assistente di produzione Riccardo Porfido direttore tecnico Orlando Bolognesi personale tecnico in tournée Manuela Alabastro (suono), Carola Tesolin (costumi), Corrado Mura (luci), Enrico Zucchelli (scena) produttore esecutivo Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale (Italia) co-produzione Teatro Stabile di Bolzano (Italia), Teatro Metastasio di Prato (Italia), Théâtre de Liège (Belgio), Sibiu International Theatre Festival/Teatrul Național “Radu Stanca” Sibiu (Romania), Teatrul Național “Mihai Eminescu” Timisoara (Romania), Istituto Italiano di Cultura di Bucarest (Romania), TPE – Teatro Piemonte Europa/Festival delle Colline Torinesi (Italia), Théâtre Gymnase-Bernardines Marseille (Francia) in collaborazione con Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento (Italia), Le Manège Maubeuge – Scène Nationale (Francia)
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Delbono riversa la sua storia di psicofarmaci e Bobò perduto di Luca Morini -Torinosette - La Stampa- |
Martedì 19 Novembre 2024 10:36 |
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Risvegliarsi e dirsi addio di Francesca De Sanctis - L'Espresso- |
Domenica 17 Novembre 2024 13:01 |
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Il risveglio melanconico di Pippo Delbono di Massimo Gonnelli - Fermata Spettacolo - |
Domenica 17 Novembre 2024 12:14 |
FERMATA SPETTACOLO
Il Risveglio melanconico di Pippo Delbono
Un’opera meditativa, che invita a una riflessione sulla perdita e sulla memoria
Il risveglio di Pippo Delbono, andato in scena al Teatro Metastasio di Prato,
è uno spettacolo carico di emozioni che vibrano e si diffondono, avvolgendo il pubblico in
una riflessione intima e dolorosa.
Dopo Amore, anche ne Il risveglio Pippo Delbono intreccia musica e poesia,
per esplorare la memoria, la perdita, e l’intenso legame con persone amate, come Bobò,
suo compagno di scena per oltre vent’anni, e Pina Bausch, la celebre coreografa.
Delbono scava nelle radici del suo dolore più profondo: la perdita di Bobò, storico
membro della sua compagnia e amico da una vita, che Delbono aveva incontrato in un
ospedale psichiatrico e con cui aveva instaurato un rapporto artistico e umano
indissolubile. Era divenuto un simbolo di autenticità per il suo teatro, rappresentando
un’umanità fragile e vera.
Il dolore di Delbono viene espresso e amplificato dalla scelta musicale, che gioca un
ruolo fondamentale in questo spettacolo, non limitandosi a essere un mero
accompagnamento, ma divenendo un vero e proprio personaggio che partecipa alla
narrazione.
Il risveglio di Pippo Delbono © Luca Del Pia
Lo spettacolo infatti si apre con Domani è un altro giorno, interpretata da Ornella Vanoni
in video, come un’apparizione eterea che evoca la ciclicità del dolore e della guarigione.
Nonostante la sofferenza, c’è sempre spazio per un nuovo inizio, un risveglio.
Non mancano richiami anche all’epoca rivoluzionaria degli anni ‘70, con canzoni come
See Me, Feel Me degli Who e Volunteers dei Jefferson Airplane. Questi brani fanno
risuonare un’energia ribelle e comunitaria, ma qui vengono usati come simbolo di una
rivoluzione ormai passata, un’idea che appare remota e quasi nostalgica, come un’eco
lontana.
“Rivoluzioni interiori” ormai passate, che assumono un tono melanconico, dove la forza
appartiene allo ieri, e l’oggi e il futuro appaiono come un enorme punto di domanda, un
vuoto, colmato parzialmente dall’arte e dal teatro.
Non solo una perdita di persone care, ma anche di quel fervore collettivo e quella
speranza che un tempo sembravano possibili, è quello che sembra suggerire Delbono,
invitando lo spettatore a meditare su come le speranze di cambiamento si trasformino e,
a volte, sfumino con il passare del tempo.
Una lenta elaborazione del lutto emotiva, un insicuro ritorno alla vita, mentre gli attori
della compagnia si muovono in uno spazio scenico desertico, danzando, come in un
rituale salvifico, alla ricerca di un risveglio personale, e universale.
Il risveglio di Pippo Delbono © Luca Del Pia
Tra i membri della compagnia, si riconoscono alcuni volti noti come Dolly Albertin, Grazia
Spinella e Pepe Robledo, che da anni collaborano con Delbono, che con gesti e danze
offrono una continuità a quel linguaggio poetico e spesso crudo che contraddistingue le
sue opere. Ogni interprete sembra condividere con Delbono un frammento del proprio
vissuto, in un insieme che risulta al contempo corale e individuale.
Gli attori sono affiancati dal violoncellista Giovanni Ricciardi, la cui musica dal vivo
intensifica l’atmosfera malinconica e contemplativa.
Le luci e le proiezioni video giocano un ruolo cruciale, trasformando il palcoscenico vuoto
in uno spazio meditativo, dove cumuli di sabbia e croci amplificano il sentimento di
perdita e il desiderio di risveglio.
In bilico tra il bisogno di andare avanti e l’impossibilità di dimenticare chi non c’è più.
Attraverso Il risveglio, Pippo Delbono non cerca di nascondere il proprio dolore, ma lo
abbraccia e lo trasforma in un’opera che tocca profondamente, invitando a una
riflessione sulla perdita e sulla memoria. In scena non c’è solo un omaggio a Bobò, ma
un messaggio universale sulla nostra capacità di convivere con il vuoto lasciato da chi
non c’è più e su come il teatro, ancora una volta, con il suo potere taumaturgico, diventi
un luogo di resistenza e trasformazione, un rifugio per anime ferite.
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Torna Pippo Delbono con ‘Il risveglio’: l’elaborazione di un lutto in cui si ride spesso di Marco De Marinis - Blog- Il Fatto Quotidiano - |
Domenica 17 Novembre 2024 12:02 |
Torna Pippo Delbono con ‘Il risveglio’: l’elaborazione di un
lutto in cui si ride spesso
La buona notizia, almeno per chi ama (e sono tanti) il suo modo personalissimo, diretto
e poetico, di fare teatro, è che Pippo Delbono è tornato a calcare il palco, dopo anni
molto difficili per lui, anni di dolore e disagio. Non che avesse mai abbandonato il teatro.
Fra l’altro, ci aveva regalato, da regista, quel piccolo gioiello che è Amore (2021), in cui
rispecchiava il suo stato d’animo nella melanconia struggente della cultura e dell’arte
lusitane. Ma in Amore non saliva sul palco, tranne che nel finale, per distendersi ai piedi
di un alberello spoglio che all’improvviso fioriva di bianco. Presagio di primavera e di
risveglio.
C’era mancato il suo modo inconfondibile di stare allo stesso tempo dentro e fuori
dello spettacolo, un po’ regista e performer e un po’ spettatore. Ci sono mancate
le sue corse dal fondo della sala verso la scena, con quelle irruzioni che servivano anche
a legare i diversi “numeri” di cui solitamente si compongono i suoi spettacoli, come un
varietà o una rivista, o al circo, grazie alla straordinaria compagnia di attori-non attori
riunita quasi trent’anni fa. Ci è mancata la sua disperata vitalità, la sua anomala eppur
precisa fisicità, il suo modo così poco canonico eppure efficacissimo di leggere un testo,
trasformandolo in un messaggio rivolto proprio a te, a ogni singolo spettatore.
In Il risveglio (visto al Teatro Storchi di Modena in ottobre) tutto questo ancora non c’è,
se non per accenni. Pippo sta sempre in scena, seduto o fermo in piedi. Oppure
cammina piano a passettini, non senza difficoltà. E sembra la camminata dell’adorato
Bobò, l’omino sordomuto che aveva adottato nel 1996 ed era diventato la “vedette” del
gruppo, amato dalle platee di tutto il mondo per l’incredibile presenza e l’assoluta
precisione del suo fare scenico. La scomparsa di Bobò, nel febbraio 2019, è stata la
causa scatenante della condizione di sofferenza in cui ha versato il nostro artista negli
ultimi anni. Ora, in questo spettacolo, accade come se Bobò fosse entrato in lui e la
coppia si fosse in qualche modo ricomposta.
La novità de Il risveglio rispetto agli spettacoli precedenti è che quasi tutti i testi che
Pippo legge sono suoi, una sorta di diario poetico di questi anni, del “buio feroce” che si
è trovato ad attraversare ancora una volta. Ma presto si risale indietro, come in altre
occasioni, fino alla giovinezza, quando era uno studente di Economia e Commercio,
e alle corse in moto con Vittorio, il suo amore fatale, verso un concerto dei Who a
Zurigo.
Naturalmente è a Bobò che viene consacrata buona parte dello spettacolo, compreso il
finale, che lo mostra in video mentre balla e tutti gli altri escono in scena per ballare con
lui, e con Pippo. Il quale evoca anche Pina Bausch, uno dei suoi maestri, per
raccontare aneddoti teneri e buffi che dimostrano quanto lei fosse affezionata a Bobò,
avendone capito la misteriosa grandezza artistica.
In questo spettacolo, dedicato sostanzialmente all’elaborazione di un lutto, si sorride
spesso, come del resto in tutti i lavori di Delbono. Per esempio all’inizio, quando, dopo
averci fatto vedere una splendida Ornella Vanoni d’antan che canta Domani è un altro
giorno, Pippo racconta che alla “prima” parigina gli spettatori, con la loro puzza al naso,
non sapevano chi fosse!
Fra la Vanoni che apre e Grace Jones che chiude con La vie en rose, c’è ovviamente molta
altra musica (con il violoncellista Giovanni Ricciardi sul palco): soprattutto rock-pop, dai
Jefferson Airplanes ai Who. Siamo così trasportati alla fine degli anni Sessanta:
Woodstock, la controcultura, la promessa di una rivoluzione che sembrava imminente,
anzi già arrivata. Paradise now, predicava il Living Theatre.
Ma è Lather, una canzone dei Jefferson Airplanes dedicata a un reduce del Vietnam, che
torna pazzo dalla guerra, a permettere il cortocircuito che ci riporta subito all’oggi, orbo
delle illusioni rivoluzionarie di allora ma ancor più dominato da insensati scenari di
guerra. Pippo legge la lettera che una donna gli ha scritto da una zona di guerra.
Non si fanno nomi, ma non ci vuol molto a capire che si tratta di Gaza sotto
bombardamenti da oltre un anno.
Le ultime parole Delbono le prende in prestito a Gianni Celati: “Tutto quello che si sa è
che bisogna continuare, continuare, continuare. Come pellegrini nel mondo, fino al
risveglio, se il risveglio verrà” .
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Il Risveglio di Pippo Delbono, tra malinconia e suggestioni e ricordi di Elio Rabbione - Il torinese - |
Martedì 12 Novembre 2024 18:01 |
Il risveglio” di Pippo Delbono, tra malinconia e suggestioni e ricordi
IL TORINESE
La malinconia. Qualcuno ci costruisce attorno una vita o tanti momenti o una parte di
essa, “è uno di quei giorni che ti prende la malinconia” prende a cantare l’Ornella, già
molto prima dei novanta, quelli con l’aspirazione sempiterna del bicchierino di whiskey
serale e della cannetta, là sullo schermo, sul palcoscenico dell’Astra, alle spalle del
protagonista. Il teatro come un viaggio, come la summa delle emozioni e del periodo
buio che si è trascorso, dei dolori che per due anni ti hanno completamente chiuso in
casa, i segni evidenti di un logoramento, la depressione feroce e le manciate di
antidepressivi, la morte di Bobò che avevi tirato fuori dal manicomio di Aversa e che da
anni lavorava con te, lui capace di buttare all’aria soltanto mugolii sconnessi e di ballare
ma anche di riempire la scena, per te padre e fratello e maestro, la scomparsa di Bobò
come un dolore fortissimo, per cui per cinque lunghi anni “non ho più potuto sentire la
sua voce, non ho più potuto vedere una sua immagine”; e il ragazzo afgano e un
innamoramento finito e la scomparsa della grande Pina Bausch che a lui e a Bobò era
tanto affezionata.
Poi i ricordi e la solitudine si ampliano, “sette anni chiuso in un frigidaire” e la strada che
s’incammina verso la vecchiaia, disseminata di Covid e di guerre alle porte di casa che
quasi non interessano più perché c’è “la mia guerra” che mi assorbe e mi sconvolge.
Pippo Delbono, seduto al centro del palcoscenico vuoto, una landa beckettiana quasi, è il
punto di contatto con il suo “Risveglio” tra il Festival delle Colline e la stagione del TPE –
Fondazione Teatro Piemonte Europa. Per alcuni tratti, alle sue spalle, struggente sempre,
il violoncello di Giovanni Ricciardi. Parla, racconta, rivive momenti, anche storie antiche
come una fuga in moto nei Settanta per andare a sentire il concerto dei Who in Svizzera
portandosi dietro un tomo “alto cosi” per preparare diritto privato a Legge, mentre la
voce di Roger Daltrey – ricordate il Tommy di Ken Russell? – intona “See me Feel me” e
lui, oggi, segue con i movimenti spezzati del corpo, muovendosi, ballando. “La vecchiaia
” si potrebbe intitolare lo spettacolo, ma con un gran guizzo felice è diventato il Risveglio
”, legato invisibilmente al precedente “Amore” dove nel finale l’uomo andava a sdraiarsi
sotto un albero secco che improvvisamente s’era ricoperto di fiori. Un dormire, quel
dormire, che anticipava la chiusura, il quasi annientamento all’interno di un luogo fisico.
Quella fuga, dentro gli anni Settanta, dove si facevano le rivoluzioni, liberi e innovativi,
dice Delbono, dove si costruivano credo, “mi ricordo una volta”, mentre ora “sono solo
canzonette”, inutili, eguali, piatte.
C’è il tempo che passa, c’è la malattia, c’è la vecchiaia che corre intorno e che tutti
coinvolge, c’è l’io e la collettività, c’è la paura sempre più forte (“ho paura della vita,
dell’amore, di restare senza amore, la paura di restare solo”) che si può combattere con
un solo grido, “voglio gente! I want People!”. Perché la morte ha preso a circondarci, i
compagni di scena – Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria
Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo e Grazia Spinella
– portano in scena sacchi e rovesciano sabbia e ne fanno mucchi che prolungheranno
ombre scure e che accoglieranno croci. “Quando passerà il tempo di soffrire?” si chiede
Delbono, laddove con più convinzione Eduardo diceva che la “nuttata” – ma a un certo
punto anche lui ci buttò dietro un punto interrogativo, a ripensarci – doveva prima o poi
passare. “Voglio la pace”, ripete, mentre si ascolta ancora il crepitìo delle armi: e quella
pace non può che passare attraverso l’abbraccio dei suoi attori, dei suoi compagni di
lavoro, di quella che è la sua famiglia. Forse soltanto così il viaggio intrapreso potrà
continuare. Perché in fondo la vita è “en rose” e ci si può mettere ancora una volta ad
accennare passi di danza. Come sta facendo Bobò, ormai (da) lontano, sullo schermo.
“È passato il tempo di soffrire, ora aspetto il tempo di rinascere senza più paura, come
un’aquila che sta a lungo nel nido e poi spicca il volo”.
Uno spettacolo coinvolgente, un prima persona che può espandersi attimo dopo attimo
anche all’intero pubblico, una poesia alta fatta delle cose normali dell’esistenza, l’umanità
e il dolore e la gioia, il risveglio che accomuna dopo un sonno troppo lungo. “Il risveglio”
è struggente, è bello anche nei suoi gesti scomposti, imperfetti, è intriso di ricordi e di
suggestioni, di lampi che potrebbero portare in mille altre direzioni, sciogliersi e
ricomporsi, senza mai perdersi di forza. E di bellezza. Da vedere.
In occasione dello spettacolo, il Cinema Massimo organizza un ciclo dei film di Pippo
Delbono: “Guerra” (8 novembre ore 21), “Grido” (9, ore 21), “Amore carne” e “Vangelo”
(domenica 10 ore 18,45 e ore 20,30, con introduzione in sala dell’autore).
Elio Rabbione
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"Il Risveglio": nel teatro di Pippo Delbono l'autenticità sfida la finzione di Mario De Santis - Huffpost - |
Martedì 29 Ottobre 2024 08:23 |
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Il Risveglio”: nel teatro di Pippo Delbono l’autenticità sfida la finzione
di Mario De Santis Ph: Luca Del Pia
È iniziata dal Teatro Storchi di Modena la tournée del regista ligure, che ritorna dopo anni di travaglio, facendone
metafora di un mondo che spera di rimettersi in cammino dopo pandemia e guerra
28 Ottobre 2024 alle 18:23
“La vita è ricordarsi di un risveglio” questo verso, anzi l’intera poesia di Sandro Penna contiene un nucleo non dissimile
dal senso ultimo del nuovo spettacolo di Pippo Delbono intitolato “Il risveglio”. Al dolore, alla tristezza e al “corpo
rotto” dal viaggio, in Penna segue “una liberazione”: è lo sguardo verso il giovane marinaio seduto nello
scompartimento e il mare azzurro fuori. Anche Pippo Delbono vuole parlare di un simile passaggio, affondando nel
buio dei suoi ultimi anni.
“C’era il Covid… e poi c’erano le guerre, l’Ucraina, la Palestina, ma a me non importava niente. Ero talmente preso
dalla mia guerra”. Inizia così lo spettacolo che come altre volte e anche più, mette a nudo la sua biografia, per poi
annodare sofferenze privatissime a quelle di tutti e alla Storia. Dopo le anteprime al Festival di Sibiu in Romania e a
Parigi, “Il risveglio” è approdato per la prima nazionale al Teatro Storchi di Modena, parte del progetto Opening –
showcase Italia sulla dramamturgia italiana contemporanea dell’ERT- Emila Romagna Teatro, produttore esecutivo
dello spettacolo (insieme molti partner italiani e internazionali).
Tutto accade sul palco inizialmente vuoto, l’artista arriva a sipario aperto, siede su una semplice sedia, in mano il
microfono. Prima parla a braccio, poi leggerà facendo cadere fogli come una clessidra degli anni della sua “guerra”: la
morte della madre, depressioni, amori che spezzano, ma soprattutto la morte di Bobò che chiama “Fratello, padre,
maestro”. Incontrato in un manicomio di Aversa nel 1997, Bobò (Vincenzo Cannavacciuolo) era rinchiuso da
quarant’anni. Analfabeta e sordomuto, Delbono lo portò con sé e, da questa esistenza dura, di vittima inerme e
marginale, divenne presenza continua nella vita e sul palco per il regista. La sua morte nel 2019 lascia Delbono
sgomento e disperato “(non volevo nemmeno sentir pronunciare il nome”). Anche il loro primo incontro avvenne dopo
periodo buio, ma oggi, spiega l’artista in questa sorta di prologo, “dopo sei anni passati nel buio mi sono ritrovato di
nuovo nella vita, più vecchio. E anche le persone intorno a me erano diventate più vecchie”. Infatti, dice subito:
“questo spettacolo si potrebbe infatti intitolare La vecchiaia”. Come in altre pièce (“La rabbia”, “Guerra”, “Silenzio”
“Urlo” “Menzogna” “La gioia” “Amore”) Delbono parte da uno stato, una condizione esistenziale o psichica. Stavolta è
l’ultima stagione del teatro della vita, ma ribaltata come fosse un preludio. Così rievoca anni giovani, con la sua voce
profonda, più affaticata ma con dolcezza più che nostalgia. Alle sue spalle i Jefferson Airplane suonano Woodstock.
Rievoca quando andò a vedere The Who in Svizzera con un suo amico in moto. Delbono non resta seduto, balla con
Roger Daltrey sullo sfondo, canta con lui “See me Feel me” ha il “corpo rotto” e spicca il contrasto con quello
bellissimo del cantate degli Who. Balla e traballa, per i segni dei travagli fisici recenti, ma pure per sapiente teatro con
quel suo camminare come Bobò da vecchio, una mimesi d’amore.
È la voglia di mostrare che l’avventatezza giovane e l’incertezza da vecchi sono tutti passi di uno stesso cammino verso
la “gioia” (un suo tema ricorrente) non trionfale ma povero, precario. Diversamente dalla, felicità che sa di definitivo,
la gioia sta in ogni passo: non si raggiunge mai, ma si può incontrare per via.
Un cammino che ha la forma della poesia e della danza. Ballano i membri della sua compagnia a partire dallo
straordinario Nelson Lariccia e poi Pepe Robledo, che c’è da sempre, o Ilaria Distante o Grazia Spinella vestiva da
Grace Slick, tutti con vestiti, tra festa e kitsch, discoteca di provincia, ma è ironia e libertà dal peso di età e
convenzioni, che sia Buddha o Grace a dirlo: “Ehi, sto ballando per strada” ed è questa la rivoluzione. Balla anche
Bobò che arriva, evocato, sullo schermo con quella figura tra beckettiano e clownesca, infantile e senza tempo, il
sorriso assoluto. Ballerà da qui fino alla fine dello spettacolo. Delbono si unisce ai danzatori, la biografia che diventa
festa come spesso è accaduto nei suoi spettacoli (a ricordare la sua storia artistica un bellissimo libro recente di Gianni
Manzella, “Delbono” appena edito da Luca Sossella, un saggio scritto con profondità e partecipazione).
La guerra vera compare improvvisa, in una lettera letta da un’amica sotto i bombardamenti, il cui rumure risuona,
mentre sui cumuli di sabbia – unico elemento di scena, stavolta non ci son fiori – versati sul palco, vengono infilate
croci. (Il pensiero corre al Medioriente di oggi: “Guerra” fu portato in tournée in Palestina nel 2003). Però ora “è finito
il tempo di soffrire” dice Delbono, mentre il violoncello di Giovanni Ricciardi suona nell’ombra. Come i saggi usa parole
anche troppo semplici, se lette dal filtro letterario: “Risvegliati/ devi sentire l’odore rosso del mattino/ Non avere
paura”. Non è la letteratura quel che interessa, è la sostanza che si incarna teatralmente, in una sorta di contagio
dell’autenticità e di grazia evanescente, che ne fanno artista acclamato sulla scena internazionale. Non ha paura
Delbono: né del semplice, del ridicolo, né del corpo e dell’umano non conforme (la sua creazione più famosa, che fu il
debutto con Bobò, “Barboni”). Pur avendo risonanza politica, il suo non è però teatro sociale. Magari sfiora il rischio di
trasformarsi in un Ecce Homo, anche se poetico e rock: See me, feel me, guardami, sentimi. Delbono punta a
generare un rito teatrale di condivisione dell’interiorità che si scioglie. Ci accomuna tutti il fatto che “la vita è ricordarsi
di un risveglio” per citare ancora Penna; che la memoria del raccontare, più della preghiera, è ciò che ci resta di divino.
La morte superata nel racconto dei morti che vivono con noi, ed ecco che tra gli altri rievoca Pina Bausch e il rapporto
speciale che la grande coreografa aveva con Bobò.
“Non voglio stare solo, voglio gente!” è il grido emblematico verso il finale e più della frase conta lo strazio che suona
in quel grido, sfida di verità nel luogo della finzione. Così come l’invito a “danzare nella guerra”. Tutto passa per la
connessione di empatia con lo spettatore, là dove la semplicità forma un’illuminazione. Dopo l’alternanza di confessioni
(“sono sempre stato attirato dal buio”) e desiderio di “volare”, il regista per l’ultima volta si alza malfermo e allarga le
braccia, stavolta come l’aquila che sogna di essere. Abbraccia ciascuno dei suoi attori e compagni di vita prima degli
applausi e se questo è uno spettacolo sulla vecchiaia, tutto sembra all’improvviso un commiato: addio a chi non c’è
più? O al teatro, perché i malanni fisici sono anche veri e non solo metafora? Tuttavia, ci si abbraccia anche partendo e
se il suo desiderio è di “andare”, c’è da attenderlo al prossimo passo. Inseguendo quello che Delbono insegue da una
vita (e noi ogni sera a teatro): diventare finalmente bambini.
Lo spettacolo sarà dal 31 ottobre al 3 novembre 2024, Teatro Metastasio di Prato, poi a Torino, Festival delle colline, teatro Astra dal 6 al 10 novembre e poi Savona, Milano, Bolzano, Cattolica Cascina.
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Il risveglio di Paolo Randazzo - Dramma.it |
Domenica 27 Ottobre 2024 08:30 |
Il risveglio di Paolo Randazzo - www.Dramma.it-
Al dunque, nella lunga serie dei suoi spettacoli,
Pippo Delbono ha sempre dispiegato la sua arte di attore, regista, perfomer nel
perimetro sostanziale di un’espressione, potentissima e straziata, di amore per la vita in
tutte le sue sfaccettature.
Amore per la vita: al di sopra di tutto, malgrado tutto, contro tutto e tutti.
Amore per la vita che t’incendia e costringe a ribellarti e cambiare radicalmente i tuoi
piani, che ti fa innamorare di chi mai e poi mai dovresti, che ti rende ribelle e fragile,
che pretende obbedienza e ti strattona e ti emoziona, ti rende bellissimo, luminoso,
feroce, amore per la vita inestinguibile, ineffabile, violento.
Amore per la vita che ti rende sensibile (politicamente sensibile)
ad ogni piega e piaga della realtà, ad ogni ingiustizia e ferita, ma non permette a quella
realtà di piegarti in calcoli e mortificanti compromessi che ti uccidono e rendono morte il
tuo tempo ancora in vita. Chi conosce il percorso artistico di Delbono sa quanta verità c’è
in questa descrizione, per quanto estremamente sintetica. Ecco allora che, nella
costruzione dei suoi spettacoli (non è un caso che il penultimo si intitoli appunto Amore),
possono esserci tanti o pochissimi elementi costruttivi ma, fino a quando questo amore
per la vita resta attivo, caldo di emozioni e percepibile mentre egli è in scena (seppure
segnato e quasi sopraffatto dal dolore) a raccontare le sue storie (sempre quelle? sì
sempre quelle, ma da angolazioni diverse), non c’è da stupirsi che pubblico e critica
restino coinvolti ed emozionati e si senta forte e si riconosca il calore di un’esperienza
artistica lunga, importante e autentica.È quanto vien fatto di pensare in relazione a
“Risveglio” l’ultimo spettacolo di Delbono che, dopo aver debuttato a giugno scorso a
Sibiu in Romania e aver avuto alcune date a Parigi, si è visto in prima nazionale dal 17 al
20 ottobre 2024, sulla scena del Teatro Storchi di Modena nel contesto dell’Opening-
Showcase Italia della stagione di “Emilia Romagna Teatro”. Non è superfluo ricordare che
si tratta di un teatro e di una città che Delbono ama molto e in cui ha vissuto e lavorato
per diversi anni. Il palco vuoto, una sedia e l’artista che si siede e comincia a raccontarsi:
comincia a raccontare il suo risveglio dopo il dolore, la gioia vitale e desiderante del suo
risveglio, dopo sette anni, come dice lui stesso - di “frigorifero”. Una metafora per dire
della difficoltà, della malattia, del disagio che lo hanno tenuto in scacco, fermo ai margini
della vita e delle sue possibilità creative. Un risveglio che egli ha voluto celebrare
ripercorrendo alcune tappe della sua formazione e del suo percorso artistico (video di
concerti dei Jefferson Airplane o dei Who, testi, racconti di episodi personali, immagini
evocative, amicizie – quella con Pina Bausch anzitutto-, amori, gesti simbolici, momenti
di danza) e facendosi accompagnare in questo percorso dal violoncellista (magnifico)
Giovanni Ricciardi e dalla sua compagnia/famiglia: Dolly Albertin, Margherita Clemente,
Pippo Delbono, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe
Robledo, Grazia Spinella. Gesti e segni, immagini, parole, versi, che rivelano dello
spettacolo una caratura e una struttura poetiche piuttosto che una compiuta (ma forse
nemmeno ricercata) dimensione drammaturgica. Un’assenza è particolarmente sentita e
dolorosa: quella di Bobò (l’attore Vincenzo Cannavacciuolo), scomparso qualche anno fa.
Uno dei pilasti della compagnia Delbono e ingrediente importante di molta parte del suo
processo creativo. L’artista affronta con coraggio questa mancanza che sembra togliergli
il respiro, con coraggio e senza esorcizzarla, anzi lasciando che lo spettacolo si avvii a
conclusione con un video di Bobò, tenerissimo e grottesco, che danza e si muove come
solo lui poteva fare.
Il risveglio
17 - 20 ottobre, Teatro Storchi, Modena. Prima nazionale. Uno spettacolo di Pippo
Delbono. Con la Compagnia Pippo Delbono: Dolly Albertin, Margherita Clemente, Pippo
Delbono, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo,
Grazia Spinella. Al violoncello Giovanni Ricciardi. Luci di Orlando Bolognesi, costumi di
Elena Giampaoli, suono di Pietro Tirella. Capo macchinista Enrico Zucchelli.
Organizzazione Davide Martini. assistente di produzione Riccardo Porfido. Produttore
esecutivo Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale. Co-produttori Teatro Stabile di
Bolzano, Teatro Metastasio di Prato, Théâtre de Liège, Sibiu International Theatre
Festival/Teatrul Național “Radu Stanca” Sibiu, Teatrul Național “Mihai Eminescu”
Timisoara, Istituto Italiano di Cultura di Bucarest, TPE – Teatro Piemonte Europa/Festival
delle Colline Torinesi, Théâtre Gymnase-Bernardines Marseille In collaborazione con
Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento, Le Manège Maubeuge – Scène Nationale.
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"Il Risveglio" di Pippo Delbono e la condizione del Grande Irregolare, da Modena ci portano a ... Laodicea di Paolo Martini - DRAMAHOLIC- |
Giovedì 24 Ottobre 2024 15:08 |
"Il Risveglio" di Pippo Delbono e la condizione del Grande Irregolare, da Modena ci portano a ... Laodicea
di Paolo Martini - DRAMAHOLIC-
23.10.2024
Non rinuncia a raccontare d’essere andato alquanto prevenuto a vedere Pippo Delbono, la prima volta, nemmeno lo studioso di teatro Gianni Manzella, che ha voluto dedicargli una strana ponderosa monografia raccontata (302 pagine, ed. Luca Sossella, titolo semplice, ma significativo dell’inclassificabilità del personaggio: ‘Delbono’)
Lo scrittore e fondatore della rivista ‘art’o’ ha detto tranquillamente d’aver affrontato l’incontro da spettatore con Delbono quasi solo per misurare in concreto un’antipatia istintiva, condivisa da gran parte degli addetti ai lavori del sistema teatro italiano.
Lo ho raccontato proprio di fronte all’interessato, pur semi-addormentato e dichiaratamente distratto, alla presentazione nel Teatro Storchi di Modena del libro, nel tardo pomeriggio del 18 ottobre, prima della seconda rappresentazione de ‘Il risveglio’.
E’ stato un pre-spettacolo davvero particolare, come prevedibile dato il personaggio. Con l’aria al solito un po’ sgualcita, a essere teneri, Delbono si è messo subito sulla difensiva, ammettendo di non aver nessuna voglia di parlare.
Si è subito giustificato, per la condizione in cui si era appalesato, raccontando delle sue continue e disgraziate cadute, quattro di fila prima di riuscire ad arrivare a teatro. E ha persino chiesto se qualcuno degli degli astanti potesse indicargli una cura, o un rimedio, per queste improvvise e misteriose perdite dell'equilibrio.
In un momento successivo, prendendo la parola ha subito voluto riferire, ancor più impudico, della prima parigina tutta sbagliata de ‘Il risveglio’, che un'anima poetica autentica tra il pubblico ha trovato invece indimenticabile, proprio perché così imperfetta. 'Non ne posso più di andare a teatro per sentirmi in dovere di dire 'bravò', ho sete di verità e non d'eccellenza estetica', gli avrebbe sussurrato dopo questa scrittrice-angelo.
Ancora, come a chiosare l'elogio della grazia dell’imperfezione a teatro, ha detto che si rende conto di aver sbagliato addirittura anche il titolo, ma di non poter pretendere dai vari direttori, organizzatori e così via, un cambio in corsa, a programmi stampati.
Ha poi dichiarato che questa esperienza si sta rivelando ‘curativa’, e in qualche modo fa bene alla sua malandata salute, mentre il precedente ‘Amore’ gli costava un sacco di fatica. Ha spoilerato la frase finale - guai a rifarlo qui! -, dichiarando di averla presa da un racconto di Gianni Celati.
E poi, perlopiù, Delbono si è perso, almeno apparentemente, giocando a minacciare pure d’alzarsi in piedi e muovere quattro passi in sala, ‘per necessità, non perché mi annoi’.
Si è rianimato a un certo punto per una breve intemerata sulla fine della musica, partendo da una canzone di Sylvie Vartan, passando dalle frasi del Buddha al casino che fanno i turisti grandi e soprattutto piccini nella sua Andora, da Giovanna Marini che gli disse: ‘Pippo hai l’orecchio assoluto’ a Pina Baush che…(va ascoltato in scena, no spoiler).
Quel che conta è che poi sia riuscito a presentarsi sul palcoscenico: in questo Opening di Emilia Romagna Teatro che punta a valorizzare le migliori produzioni nazionale, non poteva mancare il nuovo ‘spettacolo’ di Delbono, poiché, tra l'altro, a produrre e supportare il nostro Grande Irregolare è la stessa ERT - intesa in questo caso anche come comunità umana simpatica e accuditiva, che vive nello spirito di luogo: 'vero, aperto, finto, strano/ chiuso, anarchico, verdiano/ brutta razza l'emiliano', cantava con affetto Guccini.
Quelle virgolette su ‘spettacolo’, indicano forse troppo bruscamente la nuova condizione di un artista che si rifugia sempre più nell’autobiografia e nel racconto del suo mondo, e coerentemente stavolta si rinchiude in un allestimento semplicissimo con accanto solo la sua compagnia di ‘diversamente attori’: qualche proiezione sullo schermo, poche luci e poca materia di scena (la sua sedia e tre-quattro mucchietti di terra con infisse e poi divelte tre croci di legno, come in un cimitero provvisorio).
Nel racconto, che è l’omaggio al suo amatissimo Bobò - per quarant'anni internato al manicomio di Aversa in quanto 'microcefalo sordomuto', poi per un quarto di secolo compagno di scena e di vita di Pippo - a tratti si ride, persino di gusto; ma se si compie l’errore di farsi trascinare dentro, anche proprio per il bisogno universale di umanità che trasuda dai racconti teatrali di Delbono, si finisce poi inevitabilmente dentro una valle di lacrime.
Trascurando anche solo la mitologia internazionale relativa, dalla stima di cui gode da parte di tutti gli altri Irregolari alla sua capacità d’incantare una platea cinese, qui si parla di un campione assoluto del teatro fuori dal sistema e dai canoni fighetti, l’Irregolare, appunto, per eccellenza.
E oggi Delbono (peraltro sempre dotato, per banalizzare, forse della voce più conturbante dopo quella di Carmelo Bene), non disdegna d’apparire sempre più povero tra gli ultimi. Portando alla ribalta la sua precaria condizione fisica, compie un passo indietro anche come costruttore di ‘spettacolo’, appunto, rispetto al suo penultimo incantevole ‘Amore’ e al precedente ‘La gioia’.
Tanto per non girare alla larga, chiunque sia appassionato di emozioni artistiche ha affrontato almeno una discussione a proposito di Delbono. C’è sempre l’amico intelligente e molto addentro al mestiere, che non può fare a meno di sbottare: ‘Nooo, basta! E Bobò, e quella voce e il sentimentalismo…’.
Per fortuna c’è stato sempre anche chi convince qualcuno ad abbandonare ogni ritrosia e affrontare a cuore aperto questo Totem del teatro contemporaneo, con il risultato quasi scontato di una sorta di conversione, che si ripete nell’effetto di abbandonarsi alle lacrime di rinascita in perfetta sincronia con le/i vicine/i di poltrona.
Nel caso de ‘Il risveglio’ siamo proprio come al distillato puro, dove il teatro inteso come costruzione di spettacolo si fa quasi impalpabile: del resto dopo la scomparsa di Bobò è finito il mondo di Delbono, così come lui per primo dichiara.
Bisognerebbe poi cominciare a ragionare sul significato di questa volontà di permanenza in scena, non solo come auto-terapia per l’interessato, ma come balsamo sociale.
Il momento catartico de 'Il risveglio': Pippo abbraccia i suoi (foto di Luca Del Pia)
Per ragionare meglio sull'ultimo Delbono bisognerebbe entrare in un territorio delicato, quasi religioso, perlomeno culturalmente, se non proprio sciamanico o sacro, come dice lui stesso a proposito dell’imperfezione-talento irripetibile di Bobò.
A vedere oggi Delbono e quel che resta della sua Compagnia, per quei casi cosiddetti fortuiti, il cronista è arrivato mentre rileggeva, esattamente sessant’anni dopo, ‘L’attore denudato’ di Jerzy Grotowski.
Questo breve saggio del 1964, che precede il celeberrimo ‘Per un teatro povero’, si apre non a caso con una citazione dell’Apocalisse, sul rigetto divino che attende i ‘tiepidi’.
La stessa idea che viene automaticamente fuori ogni volta che ci si confronta su Delbono, dividendosi così nettamente, pro o contro senza mezze misure, più che mai ora che si spinge a un vertice esemplare di ‘denudamento’.
Ora, com’è noto, Grotowski da qui partiva per la tangente sulla ‘santità dell’attore’, pur usando questo ‘santo’ in modo esplicitamente laico, muovendo appunto dalla citazione apocalittica tra le più ricorrenti: ‘poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca’.
La frase funzionava come prova che il cammino verso la 'santità' potesse poi rivelarsi di luminosa redenzione ‘proprio partendo dalla miseria del mestiere dell’attore’.
Nel caso di Delbono - che peraltro dei Vangeli è un frequentatore e di cultura cristiana appare averne da vendere - bisognerebbe oggi avere il coraggio di andare oltre quella semplice frase forte contro l’indifferenza (in 3-16 dell’ultimo libro della bibbia).
Subito dopo nell'Apocalisse (3.17) si legge: ‘Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo’. Il tu impersonale è rivolto agli abitanti di Laodicea, la chiesa al cui angelo si rivolge il messaggio apocalittico.
Dunque oltre vuol dire soprattutto tornare a fare i conti con il mondo di Laodicea sul Lico, nell'Asia Minore oggi turca: una città, di cui oggi restano giusto le rovine archeologiche, che al tempo era un esempio sfolgorante di ricchezza e civilizzazione, con le terme, uno stadio e ben due teatri.
Una fortuna fondata sia sulla posizione e la vocazione commerciale, sia su una fiorente attività di produzione tessile .
Laodicea era anche, si badi bene, una sorta di capitale finanziaria ante-litteram dell'Impero, animata dai mercanti e banchieri ebrei, tra cui poi anche i neo-convertiti cristiani.
Ora, come suggeriscono i migliori commentatori (si rimanda alla lettura che ne ha fatto un grande uomo di fede e di carità come Giovanni Nicolini), non è senza appello la condanna divina così drastica dell’indifferenza che nasce dall’opulenza.
Quel ‘ti vomiterò’ è un linguaggio profetico che punta in definitiva, con una scossa di realtà, a riportare i laodicei sui binari dell’umanità e della compassione.
Ed è qui che Delbono sembra voler ricondurre anche tutti noi ‘tiepidi’ di oggi, mettendosi in gioco così, denudato fin quasi all’inaccettabile, come a raddoppiare nella fragilità fisica del narratore l’esemplare imperfezione e diversità artistica a cui rende omaggio.
E la domanda su cui interrogarsi è quanto una lezione del genere, da ‘border-line’ possa invece sembrare centrata esattamente alla nostra condizione di occidentali ‘laodicei’, dove l'opulenza si bagna nell'acqua tiepida dell'indifferenza.
Souvenir dramaholico del 18 ottobre a Modena, in alto una delle belle cartoline che l'ERT distribuisce all'uscita
P.S.: delicato e toccante omaggio di Enrico Fiore, nel suo controscena, a Bobò, a Delbono e a 'Il risveglio': spoiler alert, leggere solo dopo aver visto lo spettacolo!
Tournèe de 'Il risveglio' di Pippo Delbono: dal 31/10/2024 al 03/11/2024 TEATRO METASTASIO - PRATO ;dal 06/11/2024 al 10/11/2024 TEATRO ASTRA - TORINO; dal 12/11/2024 al 14/11/2024 TEATRO CHIABRERA - SAVONA; dal 19/11/2024 al 24/11/2024; PICCOLO TEATRO STREHLER - MILANO; dal 12/12/2024 al 15/12/2024 TEATRO COMUNALE - SALA GRANDE - BOLZANO; dal 06/02/2025 al 07/02/2025; ATELIER RENAISSANCE - MAUBEUGE (FRANCIA)
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Pippo Delbono a teatro "il risveglio" di un'aquila di Walter Porcedda - gli Stati Generali |
Giovedì 24 Ottobre 2024 14:56 |
Pippo Delbono a teatro il "risveglio" di un'aquila
di Walter Porcedda
23 Ottobre 2024
MODENA _ Gli anni avanzano e la giovinezza non torna più. Come le persone perdute per sempre. La madre, Bobó, l’afghano, Pina Bausch. Ed è per loro il suo ultimo spettacolo. Un tango danzato da solo: dopo anni di solitudine e sofferenza certifica il ritorno alla vita. È anche per questo che il nuovo spettacolo “Il Risveglio” di Pippo Delbono, si apre simbolicamente con la proiezione di un video che ritrae Ornella Vanoni mentre interpreta dal vivo il brano “Domani è un altro giorno”. E’ il punto di partenza di uno struggente atto unico che Pippo e la sua compagnia hanno mostrato nei giorni scorsi in prima nazionale, davanti ad un pubblico caloroso e affettuoso al Teatro Storchi di Modena.
Teatro come viaggio della memoria. Teatro come medicina. Cura gli affanni e soccorre nel momento degli incubi. Lenisce le ferite che tornano dolorose nel momento del ricordo. Ma per andare oltre occorre compiere uno sforzo estremo, e rinascere. Almeno per quanto è possibile.Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, ricordava cinque secoli fa Eraclito. Il fiume scorre e pure noi cambiamo; tanto più questo vale di questi tempi in cui siamo immersi in uno stato di continua mutazione. Il Tempo, lo spazio, le cose che ci circondano, stanno dentro un frullatore che non smette di girare costringendoci a cambiare. Anche quando la nostra vita è triste. Anestetizzati dal dolore non si percepisce il cambiamento. Come è accaduto a Pippo Delbono: si trascorrono anni, come quelli del Covid, avulsi nel tempo, rinchiusi dentro spazi fisici e mentali che non prevedono interconnessione temporanea con il mondo. Il rifugio è nell’esercizio del ricordo che esorcizza e riporta al passato come atto di nostalgia.
Pippo Delbono mentre legge i suoi versi nello spettacolo “Il Risveglio” andato in scena in prima nazionale giorni fa al Teatro Storchi di Modena (Fotografia Luca Del Pia)
Pippo Delbono riparte dove aveva lasciato l’ultimo “Amore”. Sta in una sedia nel lato sinistro della scena accudito dai suoi, microfono in mano arringa dolcemente ma in modo determinato il pubblico. la voce roca e di velluto, morbidamente sinuosa, carezzevole persino. Ristabilendo il contatto con il suo pubblico, ritrova il filo di un discorso mai interrotto. D’altra parte tutta la sua vita, sin dal “Tempo degli Assassini” del 1987, è dentro i suoi spettacoli. Ne mostra con lucida sincerità le trame mettendo a nudo emozioni e sentimenti come può fare un fratello o l’amico più caro. E il suo eloquio diventa così, sì personale, ma anche collettivo, riguarda tutto un Paese, questa malandata Italia preda di paure e angosce. Fantasmi nascosti che Pippo nomina con poche ma chiare parole. Questi fantasmi sono anche “le cose che non ci sono più, le musiche che non si sentono più, le rivoluzioni, gli anni Settanta quando si andava ai concerti dove c’erano gli artisti che parlavano di rivoluzioni e ora non più. Tutto quello che c’era di rivolta in questo momento non esiste più”. Chiuso in casa dalla malattia e anche dal Covid, Delbono è come un viaggiatore del tempo tornato dopo una breve assenza per scoprire nuovamente le guerre alle porte di casa. Ci ritroviamo ancora a che fare con ideologie pericolose e reazionarie che minano la convivenza e uccidono le possibilità di essere felici.
“… Hey now it’s time for you and me. Got a revolution Got to revolution Come on now we’re marching to the sea Got a revolution Got to revolution Who will take it from you We will and who are we We are volunteers of America”
(“È giunto il momento per te e per me/C’è la rivoluzione, vai alla rivoluzione/ Forza adesso stiamo avanzando verso il mare/C’è la rivoluzione, vai alla rivoluzione/ Chi continuerà (la rivoluzione)?/ Lo faremo noi, e noi chi siamo?/Siamo i volontari d’America”)
Un momento corale della compagnia di Pippo Delbono sul palcoscenico del Teatro Storchi di Modena per la prima nazionale de “Il Risveglio” (Foto di Luca Del Pia)
Così cantano i Jefferson Airplane al celebre festival di Woodstock nel 1969. Paul Kantner, aggrappato alla chitarra urla con forza queste rime al microfono, mentre la bellissima Acid Queen, Grace Slick, entra in scena vestita di bianco, portando in dono una voce leggendaria. Le immagini scorrono a tutto schermo sul palcoscenico ed è un bel colpo teatrale vedere quelle iconiche sequenze – ormai si smanettano su YouTube e proiettati nei piccoli monitor di cellulari- finalmente proiettate in grande, enormi. Trasmettono energia e forza straordinarie. Formidabili quegli anni, testimonia Delbono. Ed è ancora da quelle tre epiche giornate di musica che lo schermo viene conquistato subito dopo dalla potenza della musica rock degli Who che eseguono proprio nell’ultima serata del festival una versione al cardiopalmo di “See me, Feel me”:
“Listening to you, I get music/ Gazing at you, I get the heat/ Following you, I climb the mountain/ I get excitement at your feet/ Right behind you, I see the millions/ On you, I see the glory…”
(“Ascoltandoti, ricevo la musica/Seguendoti, scalo le montagne/ Sono eccitato ai tuoi piedi/ Proprio dietro di te vedo milioni/ Su di te vedo la gloria…”).
Da generazionale il ricordo diventa quindi intimo, personale. Pippo parla del suo amato Bobò, amico per vent’anni, protagonista di spettacoli e film. Ed è pure all’altra grande amica, la geniale coreografa di Wuppertal, Pina Bausch, che Delbono pensa. Due persone legate a doppio filo nei ricordi. E’ un attimo di melanconica poesia, come una brezza che s’infila al mattino, leggera tra gli alberi, quando salgono le note al violoncello di uno straordinario solista qual’è Giovanni Ricciardi: dà il suono giusto all’anima delle parole di Delbono che srotola il suo blues : “Ho paura della vita … senza amore, senza Bobò”.. “paura di perdere la leggerezza…”.
Due attori della compagnia Delbono mentre rovesciano dei sacchi di terra lungo tutto il palcoscenico del Teatro Storchi di Modena (Fotografia Luca Del Pia)
Il teatrante e il poeta, l’uomo disarmato davanti al cielo svela tutta la sua fragilità. “Ho paura del cielo. Ho paura della luce. Sono stato a lungo nella penombra..”. Le parole risuonano come colpi di gong. Aprono e chiudono capitoli di esistenza.
Un attore vuota sul palcoscenico sacchi di sabbia, formando monticelli nelle cui sommità vengono collocate delle croci e la scena si colora di arancio. Uno dopo l’altro entrano ed escono gli attori della compagnia. Un campionario di diversità e abiti colorati, di attitudini teatrali differenti. Ciascuno regala un gesto, un ammiccamento, una danza, un sorriso di complicità. Amati compagni di viaggio di Delbono che con lui volta per volta partecipano alla creazione degli spettacoli. Sono: Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Grazia Spinella e l’inseparabile Pepe Robledo. Segmenti diversi della stessa storia. Fanno da corona a Pippo e lo sostengono delicatamente, con fili invisibili. Pezzi di una grande famiglia aperta di girovaghi e attori, singolari entertainer, satelliti di una poetica che ha sempre vissuto nel mondo immersa fino nel profondo. Dal bianco al nero più scuro.
L’atmosfera nel palcoscenico diventa sempre più leggera, pur mantenendo una sua composta austerità come in un cabaret sfuggito a Beckett. I fogli da cui Delbono legge il suo tempo perduto perdono la presa della mano e cadono sparpagliandosi sul palcoscenico, come petali di rosa… intanto rimuove le croci dalla sabbia: il ricordo è dentro il cuore. Le immagini nell’aria. La poetessa Wislawa Szymborska ha scritto :
Pippo Delbono abbraccia uno per uno tutti i componenti della sua compagnia nello spettacolo “Il Risveglio” in scena a Modena (Fotografia di Luca Del Pia)
“… Anche agli alunni più ottusi
Della scuola del pianeta
Di ripeter non è dato
Le stagioni del passato.
Non c’è giorno che ritorni,
Non due notti uguali uguali,
né due baci somiglianti,
né due sguardi tali e quali…” (da “Nulla due volte”)
Torna in mente Eraclito: “negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo”. Quello che è stato vissuto con chi si è amato resterà unico, sigillato per sempre nella memoria. Delbono muove le braccia verso il cielo accennando passi di danza. E’ giunto il momento di alzarsi da soli e ritrovare il coraggio, la forza e la fiducia in se stessi. Delbono: “E’ passato il tempo di soffrire, ora aspetto il tempo di rinascere senza più paura, come un’aquila che sta a lungo nel nido e poi finalmente spicca il volo”.
“Il Risveglio”, una attrice della compagnia Delbono danza accompagnata dalla musica del violoncellista Giovanni Ricciardi (Fotografia di Luca Del Pia)
Risvegliati.
Devi sentire l’odore rosso del mattino.
Non avere paura.
È il tempo di parlare sul mistero della vita.
Io sono sempre stato attirato,
rapito e impaurito dal nero della notte.
Ora vorrei di nuovo andare.
Di nuovo correre. Di nuovo volare.
Con la voce che canta e urla
come un uccello impazzito.
È un risveglio dopo la tempesta.
Tutta la compagnia sale e avanza sul proscenio mentre in sottofondo i Kolectivo suonano “Triste condiciòn” una musica leggera e orecchiabile giusta per ballare… così fa Bobò nel film proiettato sul fondo.
“Il risveglio”, produzione di ERT con Teatro Stabile di Bolzano, Teatro Metastasio di Prato, Théâtre de Liège,
Sibiu International Theatre Festival/Teatrul Național “Radu Stanca” Sibiu, Teatrul Național “Mihai Eminescu” Timisoara, Istituto Italiano di Cultura di Bucarest, TPE – Teatro Piemonte Europa/Festival delle Colline Torinesi, Théâtre Gymnase-Bernardines Marseille. Dopo Modena sarà rappresentato a Prato, Torino, Savona, Milano, Bolzano, Maubeuge, Cattolica e Cascina.
Al termine dello spettacolo “Il Risveglio” tutta la compagnia avanza sul palcoscenico con Pippo Delbono mentre sullo sfondo si vede Bobò che danza (Foto Marco Vitali)
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Sul palco la fragilità del mio amico Bobò di Michele Sciancalepore - Avvenire |
Giovedì 24 Ottobre 2024 14:47 |
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Il risveglio di delbono : storie di vita e teatro di Antonio Righetti - Spettakolo |
Giovedì 24 Ottobre 2024 14:17 |
Il risveglio di Pippo Delbono: storie di vita e teatro
Emozioni. Ecco il cibo che nutre e soddisfa.
Emozioni pure.
Reazioni a fronte di domande secche e pesanti.
Di Che Cosa Hai Paura?
Pippo Delbono è un uomo di teatro che vive con pienezza l’arte, lo fa correndo rischi e rischiando. Lo fa cercando quel rapporto con la verità sulle assi dei palchi dei teatri di tutto il mondo ove le persone vengono a assistere a una magia che sanno essere costruita.
Certo, quando funziona lo capisci.
A partire da poesie e racconti originali, Pippo Delbono mette in scena un gesto di solitaria ribellione, mosso dalla volontà di continuare a vivere, allargando lo sguardo verso ciò che ci circonda, a costo di trovarsi di fronte a una realtà peggiore di quella da cui si era fuggiti. Attraverso il racconto salvifico delle proprie debolezze, paure e speranze, l’artista crea uno spettacolo che è un’invocazione alla rinascita e che, a partire da un’esperienza personale, sfocia nella rappresentazione universale di quel “sentimento di perdita” che riguarda tutti. Il risveglio è un lavoro sulle cadute e i risvegli, dedicato a chi si è addormentato e poi risvegliato, e a chi ancora non lo ha fatto. Attorno a Pippo Delbono, gli attori della Compagnia danzano sulle note struggenti che suonano lamenti di amore e tenerezza evocando un rito sacro, un funerale forse.
La voce, quella voce di Pippo Delbono che è uno strumento favolosamente musicale, con quella voce che modula, sussura, canta e incespica come col passo, Delbono racconta la sua verità che tocca la nostra.
Soprattutto il teatro di Delbono è musica, ascoltata vista e vissuta con l’afflato idealistico di quei tardi anni sessanta e tutti i settanta, quando il cambiamento che credevamo possibile sembrava lì lì per accadere.
I Jefferson Airplane con Volunteer, oppure The Who, raccontati in un episodio di vita di Delbono, fino a Lather con la voce di Grace Slick a creare un universo sonoro insieme a suoni che sembrano penetrare nel racconto insieme alle note serafiche del basso di Jack Casady e la chitarra di Jorma Kaukonen.
Musica, c’è da sempre tanta musica nel teatro di Delbono, da Frank Zappa a Ornella Vanoni, dalle musiche create da Giovanni Ricciardi.
Sono canti che vanno diretti al cuore. Ti fanno sentire in compagnia, non più solo, su questa terra, così come emozione pura è l’omaggio a Bobo’, attore centrale nell’opera di Delbono, del quale, con quella voce, Pippo evocherà perfettamente lo spirito saggio e elegante.
Non siamo in cerca di scene che strappino dei gridolini di stupore, non ce n’è bisogno, rimane lo spazio per quelle domande pesantissime e profonde.
Una riflessione che a tratti è troppo umana.
I passettini drammatici di Pippo, quel suo danzare da seduto con le mani e le braccia, una fisicità sempre più interiore e le paure di Pippo che diventano quelle di tutti.
Farsi vedere emozionati spiace, è troppo auto-indulgente e aiuta il buio in sala per abbandonarsi a questo rito.
E’ un teatro di amore.
Amore per la vita e perdita dell’amore.
E’ un teatro del quale c’è più che mai bisogno.
“Devi danzare, danzare nella tua guerra”
La sua compagnia entra e esce, su tutti un Pepe Robledo fedele compagno di avventure.
Dentro lo spettacolo ritroverete i vostri morti, i vostri dolori, le vostre paure, la vostra musica.
Un teatro vitale, dove c’è vita, sudore, paura e coraggio.
Un teatro necessario. |
Il fantasma di Bobò di Enrico Fiore - Controscena.net |
Giovedì 24 Ottobre 2024 14:09 |
Il fantasma di Bobò
Pippo Delbono in un momento de «Il risveglio», lo spettacolo dedicato a Bobò (questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Luca Del Pia)
MODENA – Riporto la recensione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».
La sera del 14 ottobre 2015. Sotto una pioggia battente partecipavo a «C’era una volta il manicomio», la passeggiata teatrale organizzata da Chille de la Balanza nell’ex ospedale psichiatrico «Santa Maria Maddalena» di Aversa. E camminando nei viali disastrati, scortato dall’abbaiare iroso dei cani randagi, arrivai a un locale restaurato alla men peggio da un’associazione di giovani che, non a caso, s’era chiamata «Don Chisciotte». Dentro, in una stanza all’oscuro (ovviamente, all’ex manicomio di Aversa la corrente elettrica era stata tagliata), quei giovani avevano accumulato alla rinfusa, su un tavolo, le cartelle cliniche dei pazienti del passato. E da quel mucchio, sepolto nella polvere e nell’oblio, ne estrassi a caso, aiutato dalla debole luce del cellulare, una che sulla copertina recava il cognome Cannavacciuolo e il nome Vincenzo. Naturalmente, non mi dicevano nulla quel cognome e quel nome dai caratteri scoloriti. Ma quando aprii la cartella m’imbattei (un corto circuito al cervello e un tuffo al cuore) nella fotografia di Bobò, il microcefalo sordomuto che Pippo Delbono prese con sé dopo i quarant’anni di solitudine e di dolore che appunto nel manicomio di Aversa gli erano toccati. Il fantasma di Bobò – il Bobò che, come sappiamo, divenne l’autentica star degli spettacoli di Pippo, e al pari d’ogni stella era murato nella lontananza – tornava per reclamare la verità estrema e assordante del proprio corpo di persona. L’ho raccontato più d’una volta, quest’incredibile episodio. E lo racconto di nuovo perché m’è tornato in mente, con dolce prepotenza, mentre allo Storchi di Modena assistevo a «Il risveglio», il nuovo spettacolo di Delbono che Emilia Romagna Teatro ha presentato in «prima» italiana dopo il debutto a Parigi.
Un altro momento de «Il risveglio», arrivato allo Storchi di Modena dopo il debutto a Parigi
L’attacco è costituito da un video di Ornella Vanoni che canta «Domani è un altro giorno». E non si tratta di una citazione qualsiasi, ma di un autentico prologo che annuncia tutti i temi e, di più, le atmosfere dello spettacolo. Infatti, ai primi due versi della canzone in parola («È uno di quei giorni che / ti prende la malinconia») risponde subito un Pippo che dice: «Questo spettacolo si chiama “Il risveglio”, ma potrebbe chiamarsi anche “La vecchiaia”… Io ho passato sette anni nel buio, sette anni di dolore, come sette anni dentro a un frigidaire. Poi, quando sono uscito, mi sono visto e ho detto: ma sono diventato vecchio. Non mi ero reso conto. Come quando ti risvegli da un sogno. E ho visto che tutti intorno a me erano diventati più vecchi». La coerenza, però, non si determina soltanto all’interno de «Il risveglio», ma anche sul piano del rapporto fra «Il risveglio» e gli ultimi fra gli altri spettacoli di Pippo: quello precedente, «Amore», finiva con un uomo (il «corifeo» di tutti noi) che andava a sdraiarsi sotto l’albero secco che d’improvviso si era coperto di fiori e lì si addormentava; e adesso è questione di destarsi da un sogno che, nel frattempo, è diventato l’incubo suscitato prima dal Covid e poi dalle guerre, in Ucraina e in Palestina. Pippo si desta innanzitutto al suono dei gruppi rock che amò da giovane, i Jefferson Airplane di «Volunteers» («Guarda cosa sta succedendo fuori nelle strade / c’è la rivoluzione, vai alla rivoluzione») e gli Who di «See me, feel me» («Guardami, sentimi, toccami, guariscimi»). Ma su questi (appunto, malinconici) ricordi degli entusiasmi e delle illusioni giovanili ecco che s’innesta – in maniera prorompente e indomabile, e tormentosa e consolante insieme – la rievocazione di Bobò, il vero protagonista dello spettacolo. Di lui Pippo dice che aveva più di ottant’anni e che camminava malissimo, sempre meno. E aggiunge: «Quasi non camminava più, ma danzava. Non poteva camminare ma danzava». E torna, dunque, la coerenza a cui ho accennato. Perché a Bobò viene immediatamente associata Pina Bausch. I due si adoravano, Bobò aveva capito che Pina era una donna molto importante e Pina, durante la cerimonia indetta dall’Università di Bologna per consegnarle la laurea ad honorem, piantò i cattedratici per andare a salutare Bobò. Già, la danza. Fu questo uno dei tanti miracoli compiuti da Bobò. Come faceva, lui che non la sentiva, a muoversi perfettamente a tempo con la musica? La spiegazione ce la dà Artaud: «Se la musica ha un effetto sui serpenti, ciò non è dovuto ai concetti spirituali che trasmette loro, ma al fatto che i serpenti stanno sdraiati e distesi al suolo in ampie spirali: cosicché il loro corpo lo tocca per quasi tutta la sua lunghezza, e le frequenze musicali che sono propagate attraverso il suolo li raggiungono come messaggi vibranti e indefiniti; bene, io intendo comportarmi con il pubblico come gli incantatori di serpenti e voglio che raggiunga tramite il corpo le nozioni più misteriose».
Ancora una scena de «Il risveglio», creato dopo i cinque anni di silenzio seguiti alla morte di Bobò
Questo fece Pippo Delbono tramite il corpo di Bobò. E adesso avviene il miracolo di ritorno: il fantasma di Bobò, strappato alla lontananza della morte, ritrova la verità estrema e assordante del proprio corpo di persona incarnandosi nel corpo di Pippo, che si risveglia solo vincendo la paura «di non camminare più come Bobò». Di qui le danze che tramano di continuo lo spettacolo, di qui le musiche che sfociano (tutti i testi sono di Pippo, al contrario di quanto avveniva in precedenza) nella poesia: «Questa è una musica della vita / per la vita / con la vita / per l’amore / con l’amore / una musica per la libertà / con la libertà / per il dolore / con il dolore / per la solitudine / con la solitudine / per la paura / con la paura». Lo scopo si fonde con il mezzo per raggiungerlo. Questo è il segreto della vita. E l’ossimoro disperante «Ho paura dell’amore / di restare senza amore» viene sconfitto dalla conclusione della lettera che Pippo racconta di aver ricevuto durante i suoi anni di sofferenze da una donna che sta in un paese in guerra: «I bombardamenti sono molto vicini. Ogni giorno qualcuno viene ucciso. Eppure noi continuiamo a vivere. Continuiamo a vivere. Continuiamo a vivere». Ancora s’impone e spasima la coerenza, la canzone di Ornella Vanoni dice: «Ma nonostante tutto io / non rinuncio a credere / che tu potresti ritornare qui ! / E come tanto tempo fa / ripeto chi lo sa / domani è un altro giorno, / si vedrà!». Pippo presenta gl’interpreti (ma sono molto di più, sono la sua famiglia) seduti sul bordo del proscenio: a cominciare da Pepe Robledo («Lavora con me da quarantamila anni») e Nelson Lariccia («Ci siamo conosciuti per le strade di Napoli che lui era un barbone e prendeva tantissime medicine. Era completamente fuori di testa. Adesso non prende nessuna medicina, io invece prendo tantissime medicine e sono molto più fuori di testa di lui»), per finire, via via, a Dolly Albertin, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Gianni Parenti e Grazia Spinella. Manca solo lui, Bobò. È il primo spettacolo di Delbono in cui manca. Dice Pippo: «Per cinque anni non ho potuto più guardare nemmeno una sua immagine. Non potevo sentire parlare di lui». Adesso, però, c’è il risveglio. Sul fondale viene proiettato il video di una delle incredibili danze di Bobò. E Pippo, sia pure smagrito ed esitante, dispiega una nuova e commossa e commovente forza, giacché non solo può guardarle, quelle immagini, ma se ne appropria, ripete come in trance i movimenti e i gesti di Bobò. Si libera nell’aria un’emozione, quasi una nota delle tante che a tratti sprigiona dal violoncello Giovanni Ricciardi. Per mio conto, devo a Bobò la più bella immagine che mi abbia donato il teatro. «Barboni», lo spettacolo che rivelò Delbono, andai a vederlo a Matera, in compagnia di Angelo Montella del Teatro Nuovo di Napoli, che allora produceva Pippo. Viaggiammo in un’automobile minuscola, e fu un viaggio tanto scomodo quanto pericoloso. Perché era con noi Armando Cozzuto, uno dei «barboni», che non smise un solo momento di agitarsi, facendo roteare una sua stampella come una spada. Non so quale benevolo iddio ci salvò gli occhi. E così vedemmo. Giunti davanti al teatro, fummo accolti da Bobò che lo presidiava. Orgoglioso e allegro, andava avanti e indietro nell’ingresso a passo di marcia. Aveva addosso la maglietta dell’Inter.
Enrico Fiore |
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