La gioia

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Ogni spettacolo può essere un viaggio, un attraversamento di situazioni, stati d’animo, intuizioni diverse, che ti colgono di sorpresa. La recita di ogni sera non è più recita, ma è un rito, è un apparire e un gesto unico che lega chi agisce a chi guarda, in un comune respiro. Fare uno spettacolo sulla gioia vuol dire cercare quella circostanza unica, vuol dire attraversare i sentimenti più estremi, angoscia, felicità, dolore, entusiasmo, per provare a scovare, infine, in un istante, l’esplodere di questa gioia. Invece di fissarsi in delle immagini, dei suoni, dei movimenti sul palcoscenico, Pippo Delbono e gli attori della sua compagnia cercano di compiere ogni giorno un passo in più verso questa esaltazione assoluta, questa bruciante intuizione. Ecco allora il circo, coi suoi clown e i suoi balli. Ecco pure il ricordo di uno sciamano che con la follia libera le anime. Ecco quindi malinconie di tango e grida soffocate in mezzo al pubblico. Ecco una pienezza di visioni, che si susseguono, si formano, si confondono e si perdono una via l’altra, centinaia di barchette di carta, sacchi di panni colorati a comporre, sembra, quel «mare nostro che non sei nel cielo» della laica preghiera di Erri De Luca, fino all’esplosione floreale, creata da Pippo assieme a Thierry Boutemy, il fleuriste normanno di stanza a Bruxelles e abituato a lavorare in lungo e in largo per il mondo.


Gli attori di Delbono salgono così sul palcoscenico uno dopo l’altro e prendono, ognuno con il suo diverso sentire, il pubblico per mano e ne fanno un compagno di viaggio, parte di una comune ricerca inesauribile. Storie personali, maschere, danze, clownerie, memorie sono tutte sfuggenti immagini di persone alla ricerca della gioia.
Così, se ogni replica è la tappa di un viaggio, ogni frammento che compone lo spettacolo è un singolo passo. Il viaggio non si arresta mai, così come la girandola caleidoscopica di sentimenti e immagini. Ogni replica regala una sorpresa, a chi decide di mettersi in cammino e seguire il ritmo della compagnia e di questa ricerca infinita della gioia.

 

 

«Ho scelto di intitolare il mio nuovo spettacolo La Gioia, una parola che mi fa paura, che mi evoca immagini di famiglie felici, di bambini felici, di paesaggi felici. Tutto morto, tutto falso. Mi ha colpito “La morte di Ivan Il’ič” di Tolstoj, in cui il protagonista, nei suoi ultimi giorni di vita, si riconcilia con tutta la sua esistenza, anche con i momenti più tristi e grigi.
E da qui mi era venuto in mente come possibile titolo La morte gioiosa. Ma poi un amico mi ha detto: “Ma chi viene a teatro a vedere uno spettacolo in cui c’è la parola morte? In questi tempi dove la gente va a teatro per rilassarsi anche con opere impegnate culturalmente, ma che li riconcilia.”
Quanta paura c’è a pronunciare la parola morte. Va bene se si tratta di una morte spettacolare, patetica, ma quanta paura c’è nell’accettare la parola morte con serena lucidità. Mi ricordo quando a Manila sono entrato in un luogo che si trovava totalmente dentro una discarica di immondizia, dove vivevano moltissime persone. C’era un odore insopportabile di fogna. Ovunque c’erano spazzatura, topi, uccelli, insetti. Mi ricordo di queste donne che lavavano i loro vestiti, si profumavano, si truccavano, e ridevano moltissimo tra di loro.
E poi mi ricordo tanti anni fa in India, a Varanasi, la città dove vanno a morire gli Indiani, mi ha avvicinato un folto gruppo di bambini che saltavano, ridevano come animali impazziti. I loro piedi erano grandi, deformi, gonfi come palloni. Ma i loro visi, i loro occhi, mi trasmettevano un senso di verità, di lucidità, di vitalità, di gioia.
Tante cose ho visto e vissuto in questi anni, spesso dimenticate, ma quegli occhi gioiosi nella discarica di Manila e sulla riva del Gange, li porterò con me per tutta la vita.
Penso a questo spettacolo La Gioia come ad un racconto semplice, essenziale.
Penso alla gioia come a qualcosa che c’entra con l’uscita dalla lotta, dal dolore, dal nero, dal buio.
Penso ai deserti, penso alle prigioni, penso alle persone che scappano da quelle prigioni, penso ai fiori».

Pippo Delbono